Via Crucis di venerdì 30 marzo 2018 - Venerdì Santo - Le Sette Parole di Cristo in Croce
1
«Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno»
(Luca 23,34)
In
visita pastorale a una parrocchia di Roma, San Giovanni Paolo II venne
interrogato da una ragazzina del gruppo dei cresimandi: «Perché hai perdonato
Alì Agca?». Il Papa rispose: «Perché così mi ha insegnato Gesù».
Il
male si vince infatti solo con il bene. A chi ti vuole togliere la vita, tu
dona la vita. A chi ti percuote sulla guancia destra, porgi anche l’altra. Ama
il tuo nemico e sarai discepolo di Cristo, figlio di quel Padre che non ha
esitato a sacrificare suo Figlio per mostrare quanto grande amore ha per tutti
noi.
Il
perdono non è debolezza e non tradisce la giustizia, non giustifica il male, ma
lo distrugge nelle sue radici più profonde, che stanno nel cuore, dentro di noi.
Niente è più grande del perdono dato in perdita a chi non lo merita, non te
l’ha chiesto, forse non gli importa nemmeno di riceverlo.
Così
è capitato a Gesù sulla croce: chi viene perdonato continua a bestemmiarlo e a
deriderlo senza cambiare atteggiamento.
Perché
fare del bene a chi non mostra alcun segno di riconoscenza o di pentimento?
Perché seminare nel deserto dove non cresce niente e tutto immediatamente secca?
Ogni ragionamento umano si confonde di fronte a ciò. Solo lo sguardo su quel
Crocifisso ci dà la fede di credere in questo e la forza di imitarlo. Sì, in
quel deserto di violenza e di odio, che è la Passione di Cristo, nasce un giardino
ricco di bellezza e di vita per sempre: è il perdono!
Egli
perdona perché ama; e l’amore alla lunga vince e cambia profondamente ogni
situazione di morte, è la via che conduce alla vera pace. Allora risuoni in noi
la consegna che nasce da questa parola di Gesù: non lasciarti mai vincere dal
male, ma vinci il male con il bene. Così facendo, salverai te stesso dal
peccato e dalla morte, immetterai nel cuore della storia i germi del Regno di
Dio, sarai beato per sempre.
2
«Oggi con me sarai nel paradiso»
(Luca 23,43)
Un
ladro, che riconosce di aver sbagliato tutto nella vita, arrivato al termine si
ricorda di pregare. Pregare significa affidarsi a Dio, sperando di ottenere il
suo aiuto. Come può questo ladro affidarsi a un condannato a morte come lui,
che gli sta vicino e sta per morire? Ma egli ci crede e si appoggia su Cristo:
«Ricordati di me, Signore, quando entrerai nel tuo regno» (cfr. Lc 23,42).
Così,
diventa modello per tutti noi. Quanti cercano la salvezza e la soluzione ai
propri problemi appoggiandosi sulla propria forza ed intelligenza, sulle
possibilità economiche e i beni materiali, sulle persone potenti, per
constatare poi come tutto ciò spesso delude o aggrava addirittura il problema!
Chi ha fede sa invece che, quando è debole, può diventare forte, se si appoggia
a Dio, se si affida umilmente a Lui e prega.
Dice
Gesù: «Se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte:
“Spòstati da qui a là”, ed esso si sposterà» (Mt 17,20). Il seme di senape è il
più piccolo tra tutti i semi che sono sulla terra: se lo metti in mano, non ti
accorgi di averlo. Ma se viene seminato, può diventare un grande albero dalle
foglie spesse e forti. Così è la fede, anche piccola, piccolissima, ma sincera
ed umile: può rovesciare in positivo ogni situazione che appare compromessa e
chiusa per sempre ad ogni prospettiva di speranza.
Chi
avrà insegnato a pregare a quel ladro? Forse sua madre da piccolo, o il suo
catechista. Poi, quel seme gettato nel suo cuore è rimasto lì, inevaso per
tutta la vita, e sembrava scomparso, morto. Ma non è così. È bastato poco per
fruttificare e diventare subito un grande albero, che ha steso i suoi rami fino
al Paradiso.
Quella
parola insegnata ha fruttificato il cento per cento. Ricordatelo, voi cari
genitori, catechisti, insegnanti: ciò che si semina da piccoli e giovani,
resta, anche se appare il contrario.
Ricordiamocene
tutti: la preghiera è una piccola cosa, ma può avere la potenza di rovesciare
la vita e il mondo, perché Dio la rende invincibile.
3
«Donna, ecco tuo figlio!»
(Giovanni 19,26)
Quando
uno giunge al termine della vita, consegna ai suoi figli, nipoti e amici ciò
che ritiene avere di più caro, di più prezioso e meritevole di essere accolto e
ricordato sempre.
Gesù,
al termine della vita, ci consegna sua madre, la persona a Lui più cara, il
bene più prezioso della sua vita. E con dolcezza infinita l’affida al discepolo
prediletto, che rappresenta tutti noi sotto la croce. «Ecco tua madre» (Gv
19,27), dice a Giovanni. Abbiamo bisogno di una madre e Maria lo diventa
realmente, perché ci genera nella fede con il suo dolore ai piedi della croce.
Lei, madre della Chiesa e di ogni discepolo del suo Figlio. Tocca a noi
custodire Maria nella nostra casa, accoglierne la presenza e amarla come veri
figli.
Nello
stesso tempo Gesù, ci affida a sua madre e alla sua benevolenza e cura: «Ecco
tuo figlio» (Gv 19,26), dice rivolgendosi a Maria e indicando Giovanni. Per
questo, Maria non cessa di mostrarsi madre verso l’umanità e si fa presente
nella storia della Chiesa.
Le
folle di devoti, che nei santuari ricorrono a Lei, esprimono questa fede e
questa certezza, che fa parte dell’animo più profondo e vero della tradizione
cristiana fin dai primi secoli.
Maria
non appare spesso nella vita pubblica di Gesù. Dopo il primo miracolo di Cana,
dove interviene per aiutare gli sposi a ritrovare gioia e festa con il vino
nuovo che Gesù fa distribuire a tutti, Maria si nasconde nell’ombra. Ma al
momento della Croce, quando tutti abbandonano Gesù, Maria c’è, è lì come madre
che partecipa al dolore redentivo del Figlio.
Maria
c’è sempre, quando in famiglia viviamo momenti di dolore o di prova; c’è,
quando la Chiesa è nelle persecuzioni; c’è, quando nel mondo è in pericolo la
pace. C’è, perché è madre e a Lei ogni uomo può ricorrere per ottenere l’amore che
desidera, la pace del cuore e della vita, la salute del corpo e dell’anima, la
forza della fede e della speranza.
4
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(Matteo 27,46)
È
questo un grido disperato o un profondo atto di fede e di fiducia? Questa
parola di Gesù è una citazione del salmo 22, che parla della preghiera di chi
si rivolge a Dio e all’apparenza non ottiene ciò che chiede. È una supplica,
dunque, perché Dio si mostri benevolo e misericordioso.
Gesù
ha voluto sperimentare tutte le forme del dolore e della sofferenza umana. Tra
di esse, la più difficile da accettare è il silenzio di Dio. Tu preghi e gridi
e sembra che Dio non ti ascolti. Sei solo e abbandonato a te stesso. Ma non è
così.
Il
Padre non è insensibile al grido del Figlio ed è vicino a Lui e ne sostiene il
cammino faticoso della prova.
Commenta
la Lettera agli Ebrei: «Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì
preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da
morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò
l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna
per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,7-9).
Il
Padre esaudì dunque Cristo, ma non secondo quello che a noi potrebbe apparire
il suo vero bene (essere liberato dalla prova), ma secondo quel bene che solo
Dio conosce e attua nella vita del Figlio.
Solo
se ci fidiamo fino in fondo di Dio e siamo pronti a fare sempre la sua volontà,
possiamo valutare e giudicare positivamente anche esperienze e realtà
fortemente negative della nostra vita. Tutto, in fondo, concorre al bene di
coloro che amano Dio e si dispongono alla prova facendo la sua volontà. In quel
grido di Gesù c’è la sua più vera e profonda umanità e c’è dunque anche la nostra,
che è chiamata a fidarsi di Dio come si è affidato Lui sino alla fine.
5
«Ho sete»
(Giovanni 19,28)
Il
vangelo di Giovanni ci dice che questa parola di Gesù è stata pronunciata per
compiere la Scrittura. Si tratta del salmo 69, una preghiera che il giusto
perseguitato rivolge a Dio. In essa si afferma: «L’insulto ha spezzato il mio
cuore […]. Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho
trovati. Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato
aceto» (Sal 69,21-22). Invece di acqua, fiele.
La liturgia
del Venerdì Santo, durante l’adorazione della croce, canta: «Popolo mio, che
male ti ho fatto? In che ti ho provocato? Dammi risposta. Io ti ho dissetato
dalla rupe con acqua di salvezza, e tu mi ha dissetato con fiele e aceto».
Santa
Teresa di Calcutta, stando di fronte al Crocifisso, lo contemplava e sentiva
risuonare dentro di sé questa parola: «Sitio – Ho sete». Di che cosa ha sete il
mio Signore? si chiedeva. È lì che ha avuto la rivelazione, che ha orientato
tutta la sua eroica vita alla carità. Gesù ha sete d’amore, del mio amore. Egli
ci desidera più di quanto noi lo desideriamo, ci ama più di quanto noi lo
amiamo. Quel grido – «Ho sete» – risuona per le strade di ogni città e paese,
ovunque ci sono poveri, morenti sulla strada, emarginati. «In loro Gesù ha sete
di loro ed io – diceva Santa Teresa di Calcutta – devo
rispondere
a questa richiesta amando, amando tutti con l’intensità di amore di Cristo
sulla croce».
Quel
grido – «Sitio – Ho sete» – risuoni anche nel nostro cuore e ci spinga a
rispondere con amore sincero al Signore; ma ci dia anche orecchi e cuore per
ascoltarlo nelle persone che ci sono vicine e che ci interpellano con la loro situazione
di solitudine, di miseria materiale e morale, di povertà.
Fare
Pasqua con Cristo significa donare acqua viva a tanti, che ricevono solo fiele,
amarezze e delusioni dalla vita e dagli altri; significa non restare
indifferenti al loro grido di aiuto.
6
«Tutto è compiuto!»
(Giovanni 19,30)
Gesù
ha percorso la sua via, quella tracciata dalla volontà del Padre suo, e non si
è ritirato indietro, non ha desistito malgrado la sofferenza e la solitudine
estrema. Nella sua morte si compie ogni profezia, ogni attesa, ogni aspettativa
dell’uomo e della storia.
Compimento
significa appunto questo: non c’è più niente dopo di esso, perché tutto è stato
definitivamente attuato. Il sacrificio pasquale di Cristo è definitivo ed
eterno. Egli ha salvato l’umanità di allora, di oggi e di sempre.
Eppure,
San Paolo afferma che nelle sue sofferenze egli completa la passione di Cristo,
a vantaggio della sua Chiesa (cfr. Col 1,24). Con queste parole ci fa capire
che, se nulla si può aggiungere alla morte e risurrezione di Gesù, ognuno di noi
è chiamato a inserirsi in essa non solo con la fede e l’amore vissuti nella
gioia, ma anche nel dolore e nella prova.
Queste
realtà che, prima o poi, toccano l’esistenza di ogni persona, non sono soltanto
negative: possono diventare vie di purificazione e di salvezza per se stessi e
per gli altri, per la Chiesa e l’intera umanità.
La
fede cristiana non esalta il dolore e la sofferenza in sé, perché si tratta pur
sempre di conseguenze del peccato e dunque da superare e combattere, anche con
tutte le possibilità mediche e di ricerca. Ma tuttavia, il mistero del dolore e
della sofferenza umana resta e non è affrontabile solo sul piano medico o
sociale. È necessario affrontarlo pure sul piano religioso e spirituale, che
non può essere eluso o ignorato, se vogliamo trovare un senso al soffrire e al
morire dell’uomo sulla terra.
Nella
volontà del Padre, anche la sofferenza di Cristo compie un disegno di salvezza
universale per tutti gli uomini e come tale chiede la collaborazione e il
coinvolgimento di ciascuno, per dare realmente efficacia, per se stessi e per gli
altri, alla croce del Signore e sfociare così nella Pasqua di risurrezione.
7
«Padre, nelle tue mani consegno il mio
spirito»
(Luca 23,46)
Quello
Spirito che è soffio di vita e per cui ogni cosa e persona è stata creata,
viene come restituito al Padre, a Colui che l’ha donato al Figlio, nato per
opera dello Spirito Santo e guidato costantemente da Lui fin dal Battesimo al
Giordano.
Sarà
lo stesso Spirito che farà risorgere da morte Cristo, perché non poteva
abbandonare nel sepolcro Colui che è autore della vita.
C’è
serenità e fiducia in quest’ultima parola di Gesù. In fondo, c’è quello che è
stato sempre, fin dall’inizio della sua vita terrena – ricordiamo l’episodio
dei dodici anni al tempio, quando Gesù risponde alla madre: «Perché mi
cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc
2,49) –; c’è il desiderio struggente più forte e presente nell’animo di Cristo:
tornare al Padre e stare con lui nell’unità dello Spirito Santo. La vita
trinitaria è esperienza piena di comunione delle tre divine persone e di questo
ha costante nostalgia Gesù. Vedere il Padre suo, amare il Padre, stare con il
Padre, era per Gesù lo scopo della sua missione. Gesù Cristo, il Verbo di Dio,
non è mai stato separato dal Padre («Io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv
14,11), la sua vita è tutta orientata al Padre e al ritorno a Lui.
Questo
desiderio di stare con Dio per una vita di comunione gioiosa e piena si è molto
stemperato oggi. Si preferisce l’incontro con Dio qui sulla terra, perché ci
aiuti a vivere meglio oggi la nostra esistenza quotidiana. L’orizzonte della vita
eterna resta sullo sfondo, come uno scenario che descrive sulla carta mare e
montagne, laghi e pianure belle a vedersi, ma irreali e fantasiose. L’abbandono
di Gesù al Padre suo è, al contrario, l’atto di fede più grande, perché egli sa
che, affidandosi a Lui, la vita non gli viene tolta, ma trasformata per
l’eternità.
La
risurrezione è il frutto di questa fede e di questo abbandono fiducioso al
Padre. Risorge chi crede e si affida a Dio e a Lui orienta tutta la sua vita
terrena con lo stesso desiderio ed intensità di amore di Cristo. «Se noi
abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare
più di tutti gli uomini» (1Cor 15,19), afferma San Paolo. Ma Cristo è
risuscitato dai morti. Chi crede in Lui, vivrà anche con Lui in eterno. «Cristo
è risorto, sì, è veramente risorto», canta la liturgia del giorno di Pasqua!
Conclusione
Resta
con noi, perché solo il tuo amore riscalda il nostro, la tua pace crea
comunione, la tua parola ci fa parlare di noi e tra noi, il tuo pane ci nutre e
ci dà vita, la tua presenza ci infonde speranza e coraggio.
Resta
con noi sposi, soprattutto se stiamo lottando per salvare la nostra unione.
Resta
anche con quegli amici che non ce l’hanno fatta, e dona a tutti noi la sua
pace, il suo perdono, la forza di ricominciare e di guardare avanti con
rinnovata fede.
Resta
con noi ragazzi e giovani, che desideriamo una vita bella e un futuro riuscito.
Resta anche con chi si illude di trovare la felicità in una vita “spericolata”
e sperimenta la noia e la tristezza che tutto ciò lascia nel cuore: dona il
coraggio di cambiare, di amare, di sperare e di non smettere mai di credere in noi
stessi e nel tuo amore.
Resta
con noi anziani, malati e sofferenti che, dopo una vita di lavoro e di fatiche,
ci ritroviamo talvolta fuori dalla nostra casa, in strutture anche belle ed
attrezzate, ma spesso prive del calore di una famiglia.
«Dove
sei Signore? Fatti vicino almeno Tu e mostrati amico, come sempre, della nostra
solitudine».
Amen.
Benedizione