Via Crucis del Venerdì Santo, 19 aprile 2019
Parrocchia Madonna
del Mare
Trieste
Via Crucis
del Venerdì Santo
Le Sette Parole
di Gesù in
Croce
Venerdì
Santo,
19 aprile 2019
Introduzione
Il testo che accompagna questa Via
Crucis, è una meditazione sulle “Sette Parole di Gesù in Croce”, tratta dagli
scritti di Madre Anna Maria Cànopi, abbadessa e fondatrice del monastero
benedettino Mater Ecclesiae nell’Isola di San Giulio, sul lago d’Orta, recentemente
scomparsa lo scorso 21 marzo.
“Meditare su queste parole – scrive
madre Canopi – è come immergersi nel grande mistero della redenzione e
diventarne una fedele manifestazione in mezzo agli uomini del nostro tempo che
tanto facilmente passano distrattamente accanto alla Croce, assorbiti da altre
parole che lasciano il vuoto nel cuore”.
Prima Parola:
“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”
Dopo aver detto, con lacrime e sudore
di sangue, il suo sì filiale al Padre, Gesù acquista forza ed è pronto ad
affrontare la Passione tacendo davanti alla menzogna e all’umiliazione, deciso
a portare a compimento la sua missione salvifica.
Condannato a morte senza un regolare
processo, si avvia, portando la croce, verso il Calvario. Durante la faticosa
salita, egli è il buon Pastore che porta sulle sue spalle non tanto una croce
di legno quanto l’umanità, ossia la pecorella smarrita che è venuto a cercare
per riportarla nell’ovile del Padre sulle proprie spalle. Siamo dunque noi la
sua vera croce.
Il Calvario, luogo della più ingiusta
esecuzione capitale, in forza di questo «più grande» amore, spinto fino
all’estremo dono di sé, si trasforma nel monte del sacrificio redentore, nel
monte dell’intercessione e del perdono.
Colui che durante il processo «non
aprì la sua bocca» e, spogliato delle sue vesti, si rivestì di sacro silenzio, ora
che è reso del tutto impotente ed è là sospeso tra cielo e terra, inchiodato e senza
alcuna difesa, in una disfatta che sembra totale, ora egli parla.
E la prima parola che udiamo da lui
sulla croce è perdono, vale a dire «per-dono», dono al superlativo, dono di
quell’amore che l’ha spinto lì: «Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno».
Commenta un santo: «’Padre’, dice,
‘perdonali’. Che cosa si poteva aggiungere di dolcezza, di carità a una
siffatta preghiera? Tuttavia egli aggiunse qualcosa. Gli sembrò poco pregare,
volle anche scusare. ‘Padre, disse, perdona loro perché non sanno quello che
fanno’. E invero sono grandi peccatori, ma poveri conoscitori. Perciò: ‘Padre,
perdonali’. Crocifiggono, ma non sanno chi crocifiggono, perché ‘se l’avessero
conosciuto, giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria’; perciò:
‘Padre, perdonali’. Lo ritengono un trasgressore della legge, un presuntuoso
che si fa Dio, lo stimano un seduttore del popolo. ‘Ma io ho nascosto loro il
mio volto, non riconobbero la mia maestà’. Perciò: ‘Padre, perdonali, perché
non sanno quello che fanno’»
Seconda Parola:
“Oggi sarai con me nel Paradiso”
Sull’alto monte del Calvario, quasi alberi
nudi contro il cielo primaverile, si stagliano tre croci. La tradizione
artistica, con giusta intuizione, ha sempre voluto che quella posta al centro
fosse più alta; su di essa si impone all’attenzione una scritta: «Costui è il
re dei Giudei».
Gesù è là, inchiodato alla croce tra
due malfattori, provocato e deriso dai capi e dai soldati, abbandonato dai
discepoli, guardato da lontano dalla folla che prima l’aveva seguito, ascoltato
e osannato per le sue parole e i suoi miracoli: ecco ora il più inconcepibile
scandalo dell’impotenza.
Un «re da burla» che non si difende e
che non è difeso da nessuno, nemmeno con una parola… È una condizione
estremamente umiliante, ma è la vera via regale scelta da Cristo per sé e da
lui proposta ai suoi discepoli: «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono
io, là sarà anche il mio servitore» ( Gv 12,26).
E ancora: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» ( Mt 11,29).
Soltanto la fede ci fa intuire che in
tale stato di povertà e di umiliazione, di spogliazione e di morte è nascosto
un grande mistero di grazia, una realtà bella e desiderabile. Fu questa la fede
del «buon ladrone» che, solo, riconobbe nel suo compagno di sventura un vero
re, un re paziente, che pativa ingiustamente misconoscimento e ingratitudine da
parte di coloro – noi tutti – che egli non si vergognava di chiamare fratelli.
E per quella sua fede il ladro ebbe il
coraggio, in mezzo alle bestemmie e alle parole irrisorie, di chiamarlo per
nome, di riconoscerlo «salvatore» e di rivolgergli un’umile preghiera di
supplica: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno», rubando così
all’ultimo istante il passaporto per entrare nel più bello di tutti i regni e
ricevere in eredità una ricchezza incalcolabile.
Ebbe, infatti, la grazia di sentirsi
dire: «Oggi con me sarai nel paradiso» ( Lc
23,43). Il ladrone entra con il Re nel regno della gloria! Così il Cristo
esercita la sua regale autorità. Nell’umiltà del suo amore egli arriva
all’estremo sacrificio per dare all’uomo la libertà, la salvezza, la vita nel
suo regno glorioso.
Un inno della Liturgia delle Ore così
ci fa cantare: «Egli non con stragi, con violenza e terrore ha soggiogato i
regni: sollevato sull’alto della croce, tutto ha tratto a sé con forza
d’amore».
Terza Parola:
“Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre”
Tutto il tumulto della più tragica
giornata della storia sembra ora placarsi. Sulla vetta del Golgota verso sera
spiccano soltanto tre persone, tre esili figure: Gesù agonizzante, la Madre e
Giovanni, il discepolo dal cuore vergine, capace di amare con totalità di
dedizione, senza paura di morirne. Come Maria.
E si distinguono ormai soltanto alcune
brevi parole: brevi ma intense, essenziali, cariche di potenza creatrice,
perché cariche d’amore: «Donna, ecco tuo figlio!… Ecco tua madre!». La consegna
della Madre al discepolo è il supremo testamento d’amore lasciatoci da Gesù.
Nelle tenebre del Venerdì Santo una
luce rifulge; in un raccapricciante scenario di morte avviene un mirabile atto
creativo. Maria rappresenta qui la nuova Eva dalla quale nasce una prole nuova:
la stirpe dei figli di Dio. Donna, ecco tuo figlio!
Mentre sta presso la croce e consuma
nel cuore l’immenso dolore della Passione del Figlio, dal Figlio stesso Maria è
investita di una maternità spirituale e universale che la rende davvero grande
più di ogni altra creatura. Diventa madre di tutta l’umanità, perché – come
dice sant’Agostino – Gesù, in forza del suo amore, essendo unico presso il
Padre non ha voluto rimanere solo (cfr. Discorsi,
194,3). Ecco tua madre! Quale pegno e quale responsabilità! Giovanni la
prende con sé per riceverne le cure quale figlio, ma anche per averne cura come
di una madre cui è dovuto immenso amore, profonda riverenza e devozione.
Da questo momento Maria è la Madre
della Chiesa; è la nostra Madre nella misura in cui noi instauriamo con Gesù
una relazione vitale, prendendo parte al suo mistero di redenzione come membra
del suo stesso corpo. La nostra vita ha quindi le sue radici nella croce di
Gesù, nella stabilità di Maria, nella fedeltà di Giovanni.
Siamo nati là, in quell’ora, dal cuore
trafitto di Cristo e siamo stati affidati da lui al cuore della Madre. Così
siamo nati quali figli di Dio e siamo nati anche come Chiesa; perciò siamo nati
anche come madri, perché Maria è Madre e Figlia della Chiesa, com’è Madre e
Figlia del suo Figlio.
Affidati a lei, riceviamo a nostra
volta in lei e da lei la santa Chiesa; la riceviamo come Madre da amare, da
onorare; la riceviamo per darle ascolto, per obbedire ai suoi suggerimenti, per
camminare con la sua guida nella via della luce quali veri figli di Dio.
Quarta Parola:
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
Dopo aver pronunziato il suo
«testamento spirituale» e aver consegnato la Madre al discepolo amato, Gesù è
ora totalmente spoglio di ogni divina e umana ricchezza; il Figlio di Dio,
ridotto all’estrema povertà, grida tutta la sua desolazione e l’angoscia di
uomo che sperimenta la dolorosa assenza di ogni sostegno vissuta come assenza
di Dio stesso, come stato di abbandono totale: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?».
Il grido lacerante dell’Uomo-Dio
attraversa le nostre tenebre; è l’ora culminante dell’agonia in cui il Cristo
assume veramente tutta la desolazione, l’angoscia, la paura, il terrore della
morte che abitano nel cuore dell’uomo. Con forti grida e lacrime – dice la Lettera
agli Ebrei (cfr. 5,7) – Gesù pregò
colui che poteva liberarlo da morte. Il pianto di tutto il dolore delle
generazioni umane passa attraverso il cuore di Cristo, sale dalla terra,
penetra nei cieli e ferisce il cuore del Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato?».
«Dio non può averlo abbandonato –
spiega sant’Agostino – perché lui stesso è Dio». Eppure il Cristo prova questo
abbandono, vive questa estrema desolazione, cade in questo abisso dove le
tenebre sono assolute. È un mistero.
Al grido straziante del Figlio,
dell’uomo, Dio non si fa sentire, non interviene. E tuttavia non è un Dio
assente; è un Padre che, per folle amore, immola il Figlio della sua
compiacenza per i «figli dell’ira»; nel Figlio del suo amore egli immola il
proprio cuore, che, tutto donato, diventa puro silenzio. Ma in quel silenzio
c’è la più alta risposta, la più sofferta «com-passione».
È un’ora buia; è l’ora più buia della
storia, ma è anche il grembo del nuovo giorno, per la nascita di un mondo
nuovo, per il sorgere di una nuova luce. Il lamento di Cristo, infatti, è
l’inizio del Salmo 22, che, apertosi con tale lancinante grido di angoscia, si
conclude poi – come la stessa Passione – con una consegna fiduciosa, con una
parola piena di speranza: «E io vivrò per lui (per Dio), lo servirà la mia
discendenza» (vv. 30-31). Proprio
quest’Uomo che muore avrà una lunga discendenza.
L’ora in cui Colui che è la Vita si
consegna alla morte è dunque l’ora della massima fecondità: generazione a
prezzo della morte. Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio si fece buio sulla
terra… Questo è uno spazio di tempo nella giornata, in ogni giornata, che noi
dovremmo sempre trascorrere sotto la croce, poiché quell’ora non si è chiusa,
ma perdura e abbraccia tutta la nostra esistenza. Noi siamo ancora
contemporanei all’agonia di Gesù, sempre presenti all’ora della sua suprema
offerta.
Quinta Parola:
“Ho sete”
Dopo il grido di dolore rivolto al
Padre e dopo aver affidato la Madre al discepolo Giovanni, Gesù esprime con un
soffio di voce un’umile domanda da mendicante, una domanda che tante volte
affiora sulle labbra riarse dei morenti: «Ho sete».
Il gesto di chi, imbevuta una spugna
di aceto, gliela porge è, in mezzo a tante atrocità, un segno di umana
compassione, compiuto per alleviare le sofferenze dell’agonizzante.
Ma la sete di Gesù non può trovare
sollievo soltanto in questo, perché è una sete soprattutto spirituale che lo ha
accompagnato lungo tutta la sua esistenza terrena. È sete di amore. Già
all’inizio della sua missione pubblica, sedutosi, affaticato, presso il pozzo
di Sicar, aveva chiesto alla donna samaritana: «Dammi da bere!»; e l’aveva poi
lui stesso dissetata rivelandosi come Colui che doveva venire a salvarci.
Di che cosa, infatti, ha sete Gesù se
non di noi, della nostra salvezza, della nostra fede, del nostro amore? La
beata Teresa di Calcutta commentava queste ultime parole di Gesù, dicendo: «Ho
sete: queste parole di Gesù non riguardano solo il passato, ma sono vive qui e
ora, dette a noi… Finché non comprendiamo nel profondo del nostro essere che
Gesù ha sete di noi, non potremo cominciare a conoscere quello che egli vuole
essere per noi, e ciò che egli vuole che noi siamo per lui».
La sete di Gesù è dunque una sete
divina; ma è pure un bisogno della sua umanità che si mette nella nostra
situazione di desolata povertà, di estrema debolezza per condividerla.
Scopriamo questa «sete» di Gesù anche prima, nell’orto del Getsemani, quando,
quasi come bambino impaurito, egli si rivolge ai tre discepoli prescelti con
parole di toccante umanità: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui
e vegliate» (Mc 14,34); sente il
bisogno di non essere lasciato solo. Ed è sempre nel Getsemani che,
rivolgendosi al Padre, dice ancora: «Padre mio, se è possibile, passi via da me
questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39). La sete di Gesù è sete di compiere la volontà del
Padre, è desiderio della nostra salvezza… Egli ci ama e ha sete dell’amore di
ognuno di noi, perché ciascuno di noi conta per lui più di tutto il mondo.
Perciò, se noi non ricambiamo il suo amore, egli rimane assetato e continua a
cercarci. Ma come possiamo ricambiare l’amore se, a causa del peccato, siamo
incapaci di amare? Gesù stesso, morendo riarso dalla sete, diventa la sorgente
inesauribile dell’acqua viva, poiché dal suo cuore trafitto sgorgano sangue e
acqua. Da questa sorgente possiamo attingere l’amore e la sovrabbondanza della
Vita. L’ora della crocifissione e della morte di Cristo è quindi l’ora del
trionfo dell’Amore e della sua massima fecondità. Nella misura in cui beviamo a
questa sorgente, veniamo dissetati e anche dal nostro cuore zampilla una
sorgente d’acqua viva offerta a tutti gli assetati di Dio, del Dio che è
inesauribile Amore.
Sesta Parola:
“Tutto è compiuto”
Le braccia distese sul legno, le mani
inchiodate, Gesù è fisicamente del tutto impotente, agli occhi di tutti appare
uno sconfitto. Ma le vie di Dio non sono le nostre vie, i suoi pensieri non
sono i nostri pensieri…
In realtà, questa è proprio l’ora che
egli ha ardentemente desiderato, e alla quale si è preparato come all’ora
culmine, all’ora della pienezza, in cui – superate tutte le tentazioni e le
insidie – poter dire al Padre: «Consummatum est, tutto è compiuto, la missione
affidatami è stata portata a compimento secondo il tuo volere». La preghiera di
Gesù per noi ha raggiunto il suo culmine nell’offerta che egli ha fatto di se
stesso al Padre nell’ora della croce, nel grido: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30). «Tutte le angosce
dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le
implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in
questo grido del Verbo incarnato.
Ed ecco che il Padre le accoglie e, al
di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo. Così si compie
e si consuma l’evento della preghiera nell’Economia della creazione e della
salvezza…» (CCC, n. 2606).
Tutto è compiuto. Tutto è avvenuto
secondo le profezie, tutto è avvenuto secondo il disegno del Padre. L’ora
dell’offerta iniziata con la nascita di Gesù a Betlemme si compie sul Calvario:
là era nato nella estrema povertà, qui muore nell’estrema spogliazione e
umiliazione. È la scelta di Dio, è la scelta dell’Amore che, volendo ricuperare
i miseri, si fa Misericordia, si abbassa, si svuota di sé stesso per riversarsi
in noi come sorgente di vita. Tutto è compiuto: è questo «l’istante immobile»;
il tempo si ferma, l’ora batte sul cuore di Gesù e si riparte da zero. È l’ora
zero della storia, l’ora in cui comincia il Giorno nuovo, il tempo nuovo, tempo
della salvezza e della grazia.
Tutto il dolore della Passione sembra
ora acquietarsi, come la terra che, dopo aver accolto il seme nel solco,
attende nella pace che esso germogli. È l’ora del «grande silenzio». È l’ora in
cui, come discepoli di Cristo, più nulla possiamo fare, nulla dire, ma solo
«rimanere nel suo amore», rimanere in preghiera presso di lui, inchiodati alla
croce insieme con Maria, la Madre, formando un’unica grande supplica che,
passando attraverso il cuore trafitto del Cristo, si versa nel seno del «Padre
misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2
Cor 1,3). A quest’ora della Passione di Gesù si può riferire quanto diceva
il poeta Claudel: il dolore è come una mandorla amara che si getta sul ciglio
della strada; ripassando per la medesima via, vi troviamo un mandorlo in fiore.
Settima Parola:
“Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito”
Quando tutto è compiuto, quando il
sacrificio di amore è pienamente consumato, quando non c’è più un «oltre»
nell’offerta e nel dolore, ecco l’ultimissima parola di Gesù: «Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito».
Grido di fiducia erompente dal cuore
di un Povero che, percosso, disprezzato, senza via di salvezza umana, si
rifugia in Dio, getta in lui ogni suo affanno. E in questa totale consegna di
sé trova la pienezza della pace, si ritrova figlio.
La Passione di Gesù non si conclude
con un «perché» rivolto a un Dio sentito lontano, assente, ma con un atto di
abbandono filiale: «Nelle tue mani consegno il mio spirito». Gesù spira
riconsegnandosi alle mani del Padre, a cui aveva sempre obbedito, la cui
volontà era stata tutto il suo desiderio, la sua unica gioia. Per questo la sua
agonia è come una notte che sfocia nell’alba della risurrezione.
Dalla cattedra della Croce, il Giusto,
che si è caricato di tutte le nostre sofferenze perché ha preso su di sé tutte
le nostre colpe, ci insegna a sperare contro ogni speranza, a sentire che le
mani di Dio sono più forti di qualsiasi mano potente degli uomini, più forti di
ogni tentazione che possa sopraggiungere e abbattersi su di noi. Perciò anche
quando la prova è dura, terribile e angosciosa, noi dobbiamo gridare: nelle tue
mani, Signore, sono al sicuro.
Tuttavia, il grido di Gesù esprime
pure lo sgomento di un figlio che sa di dover ancora compiere un viaggio
nell’oscurità per poter ritornare a casa. Dopo la sua consegna, infatti, il
Verbo della vita, Colui che il Padre ha mandato a parlare direttamente
all’umanità per rivelarle il suo amore, si immerge nel silenzio della morte. E
con il calar della sera, dopo gli ultimi atti compiuti dall’umana pietà, un
profondo silenzio avvolge anche il monte delle croci e penetra nei cuori.
Noi, che siamo entrati con Gesù in
quest’ora, crediamo davvero che solo apparentemente le tenebre stanno
prevalendo, poiché in esse già si fa strada la luce? Noi, che conosciamo la
morsa dell’angoscia, crediamo che nel grido di Gesù morente si fa strada la
speranza della Vita? Noi, che pure facciamo l’esperienza del turbamento per
tanti sconvolgimenti che avvengono nel mondo, ne sappiamo trarre motivo di
pentimento per convertirci a una più grande fede e soprattutto a un più grande
amore? Mentre il velo del tempio dell’antica Legge si squarcia, che cosa
avviene in noi?
Se viviamo davvero il mistero della
Croce, si può finalmente squarciare il nostro vecchio mondo, il nostro vecchio
uomo, il velo della nostra sufficienza; si può spaccare la roccia del nostro
cuore per lasciar scaturire da essa una sorgente d’acqua viva. Presi da santo
timore, allora gridiamo con il centurione: «Costui è veramente il Figlio di
Dio!»; poi, insieme con le pie donne, continuiamo a sostare presso la croce e
presso il sepolcro, sicuri che Gesù, caduto nel silenzio della morte, non è
perduto per noi, perché l’Amore è il più forte e ha vinto.
PREGHIERA CONCLUSIVA
Preghiamo
dicendo: Padre Nostro...
O
Dio nostro Padre, creatore del cielo e della terra e di ogni uomo,
è
sconvolgente che tu ci abbia amati fino a morire in croce per noi.
È
un mistero troppo grande che affascina e spaventa
e
una vita intera non sarà sufficiente per abbracciarlo.
Aiutaci,
Signore, a sentirci amati da te, personalmente e come Chiesa.
O
Padre, in Gesù morto in croce,
ogni
giorno allarghi le tue braccia alla nostra invocazione e al nostro abbraccio:
aiutaci
a non sottrarci mai al tuo amore
e
manda il tuo Spirito affinché viviamo secondo la dignità che tu ci hai
restituito.
Non
permettere che passi giorno senza ricordare il tuo amore crocifisso per noi
e
non permettere che passi giorno che non sia gesto d’amore per un amore così
grande,
nel
rispettare e amare la nostra vita, nel rispettare e amare la vita degli altri.
Per
Cristo nostro Signore. Amen.
BENEDIZIONE
Ci
protegga Maria, Madre di Gesù
e
Madre nostra, ai piedi della croce per tutti noi.
Ci
benedica il Dio della vita,
che
ha dato sé stesso morendo in croce per tutti noi.
Ci
benedica il Cristo dalla croce,
che
ci ha liberato dalle nostre colpe.
Ci
benedica lo Spirito amore,
che
ci ha convocati per questa preghiera.
E
la benedizione di Dio onnipotente,
Padre,
+ Figlio e Spirito Santo
discenda
su di voi e con voi rimanga sempre. Amen.
Andate
in Pace.
Rendiamo
grazie a Dio.